giovedì 28 novembre 2013

Mani fredde, cuore caldo


Novembre. Sul mio calendario ho scritto: è un nuovo mese. Ero partita bene, ma io parto sempre bene; poi il tempo è volato, quello sì che, come parte, poi prosegue. Questo mese mi sembra trascorso talmente in fretta che non avuto nemmeno il tempo per constatarne i danni, perché, ora che è al termine, è tempo di bilanci, e i miei non lasciano spazio all'autocommiserazione. E poi è nato ludibyludovicamarcone, quindi tutto si azzera.
Una cosa però è arrivata questo novembre, e pare abbia tutta l'intenzione di rimanere: benvenuto gelo. È il freddo vero, con le palle e le contro palle-e pur non essendo una meteorologa a breve, suppongo, saranno per giunta di neve. Non vorrei sembrare una mammina iperprotettiva ed anche un po' logorroica, ma copritevi, mangiate, e idratatevi-è il minimo. La mia parola d'ordine è morbido, d'inverno tutto dovrebbe esserlo: le coperte, le maxi sciarpe, i cappucci pelosi dei piumini. L'alternativa vuole essere drastica: mani, piedi e naso dégradé, dal rosso intenso al blu indaco, labbra e guance erose dal vento di ghiaccio, neuroni fuori servizio causa ibernazione. Premessa ovvia, ma come forse avrete capito, ho i tempi un pochino lunghi. Il fatto è che, nel mio caso, non bastano i guanti, i cappelli di lana e nemmeno i caffè corretti. Riscaldare me è un'impresa complessa; mani fredde, cuore caldo. Per questo, oltre per il semplice fatto che è assolutamente adorabile, oggi voglio presentarvi lui, il mio tenerissimo orsacchiotto, fonte di calore, compagno inseparabile, di fatto estensione del mio corpo durante tutti i mesi invernali. Ok, è uno scaldino elettrico, una borsa dell'acqua calda, solo più comoda e funzionale, ma vogliamo parlare di quanto è bello? Punto primo, mi sorride. Punto secondo, ha un fiocchetto rosso, e io ho un debole per i fiocchi. Punto terzo, ha una durata di certo superiore a quella della media dei maschietti che hanno la presunzione di potervi meglio riscaldare con metodi alternativi. Va bene, forse nell'ultimo punto è emerso il mio lato cinico di circostanza, me ne rendo conto.
Beh, se ancora non avete il vostro teddy, io vi consiglio di cercarlo, sarà amore. Oppure, già che il Natale non è poi così lontano, potrebbe diventare un'idea regalo.
Pensate caldo.

L.


mercoledì 27 novembre 2013

Con un fiocco rosa tra i capelli

Il flusso della mia coscienza è continuo, freme. Parla su se stesso, per associazione di immagini e idee; vuole che io scriva, che scatti altre istantanee. 
Questa è l'ultima parte del mio elenco, ve lo giuro.


Il mio accappatoio rosa, il caffè, la cioccolata, lo yogurt, la cannella, il ristorante indiano, la cucina internazionale, le spezie, la neve, il Natale in Francia, i campi gialli di mostarda di Digione, sciare, le baite, quella bufera incredibile con il ghiaccio che bruciava sulla faccia e le lacrime che scendevano per il dolore strappate via dal vento, quando tu mi hai salvata, il suo soffio caldo che riscalda le mie mani, andare ad un appuntamento correndo per non far scoppiare il cuore prima di arrivare, continuare a farlo anche a tutti gli appuntamenti successivi, le farfalle nello stomaco, ritrovare Jane Austin che pensavo di aver perso, un regalo inatteso, una felpa calda, le bacheche con le foto, i biglietti d'aereo, i vestiti bianchi d'estate sulla pelle abbronzata, le spiagge bianche, i materassini, le traversate oceaniche, il gelato, le stelle, la luna, i panorami che mozzano il fiato, piangere di emozione, prendere le mani, le parole sussurrate, mettersi all'orecchio una farfalla rosa, i braccialetti porta fortuna, svegliarsi propositivi, andare in motorino da soli, andare in motorino con qualcuno, le panoramiche, guidare cantando a squarciagola, affezionarsi alla "P" di principiante e non volerla più togliere, incidere scritte su tavolini di legno, dire "ti voglio bene", dire "ti amo", sentirselo dire e sentire che è vero, andare allo stadio, guardare le partite di calcio, di calcetto, di football, correre in campo, fare quello che dice il proprio impulso, avere paura di farlo, ma farlo lo stesso, poi prendere decisioni pensate ed esserne certi ogni secondo di più, prendere un bel voto, scrivere, leggere, essere sopravvissuti alla matematica, alla fisica, alla chimica, parlare, ascoltare, guardare una persona stando in silenzio, nascondersi sotto le coperte, buttarsi a letto, dormire con qualcuno che si ama, che ti è accanto al risveglio, andare al cinema, andare a teatro, tirare sassolini in acqua, sedersi in riva al mare, le feste, le cene, i pranzi, il francese, aver fatto la ragazza pon-pon anche solo per una sera, i testi delle canzoni, le lettere d'amore, le cotte alle elementari, il ghiaccio che si scioglie, fare a palle di neve, buttarsi sulla neve fresca, mangiare la neve fresca, i mondiali di calcio, il cibo buono, e cucinarlo, tenere un diario, gli ultimi giorni di scuola, la nostra ultima sera prima del primo giorno di scuola, insieme, Moulin Rouge!, e sperare tutte le volte che Satine riesca a fuggire con Christian, parlare con i propri pupazzi facendo loro discorsi molto seri, fare la lotta, fare i versi, farsi prendere in giro e riderne a crepapelle, la tequila, sale e limone, fare scritte sulla sabbia, avere una sorella e sapere che nonostante tutto le vorrai sempre bene e che quel "nonostante tutto" e quel "sempre" sono veramente veri, usare "veramente" come rafforzativo di "vero", avere una buona memoria e ricordi ancora migliori, guardare l'alba, le poesie, fare le bolle nei bicchieri con le cannucce, le parole piacevoli al suono, la bella grafia, la notte, le lucciole, i fuochi d'artificio, mia mamma che sbaglia le parole in italiano, o i modi di dire, il cuore che mi si scioglie quando vedo che è triste, e il bisogno implacabile di abbracciarla, i pranzi della domenica di mia nonna, doverle dire "basta così" non appena inizia ad impiattare per via del suo scoppio ritardato, l'acqua fredda quando si ha veramente sete, ascoltare la musica dividendo le cuffiette, impacchettare i regali, mettersi un fiocco rosa in testa, i post-it, gli aperitivi con le amiche approvati all'unanimità, le rimpatriate, i bagni di notte, i bagni d'inverno, i bagni vestiti, i bagni nudi, prendere le onde, buttarsi in mare prendendo la rincorsa, le coccinelle, mia sorella che guarda sempre gli stessi film finché non li sa a memoria, i suoi filmati stupidi ma geniali, trovarli e guardarli di nascosto, e magari con i miei amici, il tè verde marocchino, fare discorsi esistenziali, le ultime due ore di matematica del venerdì, sopportarle solo grazie alle risate pazze, dare nomi ad oggetti inanimati, il cheescake, le mattinate newyorkesi con il cappuccino take away e il muffin gigante portato dalla mamma per colazione, la Tour Eiffel, i campeggi, i fiori secchi tra le pagine dei libri, le luci che si riflettono sul mare, i CD di Jovanotti, rotolare, le recite scolastiche, i saggi di danza e i merda-merda-merda dietro alle quinte, le caldarroste, l'arcobaleno, il tiramisù,  fare le crêpes, l'odore dei sigari, il fumo che esce dalle case, essere sul punto di addormentarsi sulla moquette del corridoio di un hotel alle 4.44 in condizioni critiche, l'odore di burro d'arachidi e noccioline tostate che si respira a New York, gli hamburger "quelli buoni", i buchi nei jeans, sottolineare le frasi nei libri, spalmare la marmellata, consolare le persone, pane olio e sale che mi faceva la nonna a merenda rigorosamente davanti ai cartoni animati, i fiocchi fluttuanti dei pioppi.

Sorridere di cuore, con un cappello alla francese

La mia lista non era completa(vi tocca)

i giochi dalla nonna, i giochi in paese,i falò di primavera, i falò in spiaggia, accendere fuochi, fare sorprese, cantare soli in casa in playback davanti allo specchio, fare la doccia, farsi lavare i capelli, le gite scolastiche, l'esame di maturità, fare shopping, i cappelli alla francese, guardare i film la sera con tutta la famiglia lottando per la postazione migliore sul divano, dedicare canzoni, dire "grazie", affezionarsi ai vestiti, ricordare le battute dei cartoni animati che si guardavano da bambini, le grigliate, il primo maggio sul monte Pu, sdraiarsi sull'erba, raccogliere fiori, ricevere fiori, pensare al futuro, amare dei ricordi, scegliere, andare sui roller, brindare, i rossetti, avere una vicina di banco bionda che quando entra un po' di luce in classe diventa dorata, volerle bene, respirare a fondo, le fotografie, i filmati, la birra, la cantina con la brandina e le candele di Halloween, il letto di camera sua, sdraiarsi per terra, credere in qualcosa, vedere papà come un supereroe, mangiare le ciliegie più grosse, rosse e perfettamente lucide dall'albero gigante dei nonni senza riuscire a smettere, guardare le stelle cadenti, l'odore delle brioches di mattina, i fari, le gite in canoa, le gite in pedalò, provare entusiasmo perché è lunedì sera e c'è una nuova puntata di Grey's anatomy, guardare il cellulare sperando di ricevere un messaggio e riceverlo in quell'esatto momento, voler bene ai posti, innamorarsi di odori e profumi, i dejavù, capire di aver sbagliato, ma sapere di essere più forte di prima, pensare a qualcuno è sentirlo vicino anche se è dalla parte opposta del mondo, essere felici di tornare per quello che ci aspetta a casa, essere felici di partire per quello che ci aspetta da scoprire, quella mattina in cui nonna mi ha insegnato a fare la torta di riso, aiutare nonno-pèpè a cucinare les escargots per la vigilia di Natale, il karaoke con gli amici, le parole crociate di gruppo, il poker, il poker alcolico, buon anno e io ti sposo, fare progetti, i musei d'arte, i parchi, i laghetti, andare in barca, guardare fuori dai finestrini e pensare che la luna ci segua, contare tutti gli animali che si incontrano durante un viaggio in macchina, innamorarsi di un paio di occhi o di un sorriso o di due mani, perdonare, sorridere di cuore, correre sotto la pioggia, i barbagianni, dire "brutto" ad un pavone perché apra la coda a ruota, le cacce al tesoro, il sapore del mare, l'odore del borotalco.


Sorridere di cuore, con un cappello alla francese.
Photo by Giulia Federigi

domenica 24 novembre 2013

Tramonti, sorrisi e muffins

Quando ho scoperto Il sale della vita, l'ho letto tutto d'un fiato.
È un libro piccolo, appena 150 pagine; un elenco di immagini, un flusso di ricordi che si susseguono per associazione nella mente della scrittrice, un viaggio nella memoria.
L'autrice è Françoise Héritier, antropologa allieva di Lévi-Strauss, a cui è succeduta nella cattedra di Antropologia sociale al Collège de France. Tra le pagine del suo libro la Héritier ritorna Françoise, non più l'antropologa ma la donna; eppure, in ogni dettaglio da lei raccolto e impressionato sulla carta come una fotografia, emergono la sua sapienza di studiosa dell'uomo, il suo amore per ciò che più intimamente lo anima e lo compone. Ogni parola è dotata di una forza speciale, contiene al suo interno una storia, rendendo quel libro timido un romanzo infinito.
Un lungo elenco, una serie di parole in sequenza e delle virgole, è bastato a cambiare la mia prospettiva. La forza delle parole, in tutta la loro potenzialità, è riuscita a smuovere in me ogni cosa bella che mi apparteneva, che in quel momento era scivolata giù, sommersa solo da un malumore estenuante. Non volevo essere una ragazza triste; mi sono lasciata investire completamente. Quando ho girato l'ultima pagina la mia mente, proprio come lo era stata quella della scrittrice, era ormai invasa dalle immagini, da tutte quelle cose che mi rendevano felice; ed erano così tante, crescevano su loro stesse, che non ho potuto fare a meno di scriverle. Anche io dovevo scrivere il mio personale elenco. Per giorni ho scritto su un'agenda rosa tutte le gioie a cui non posso rinunciare, che non voglio dimenticare. Per evitare che il mio ego smisurato dilaghi, ho scelto di diluire il mio elenco in diverse pagine, ma non voglio selezionare tra i miei ricordi, a costo di logorarvi e annoiarvi a morte: ognuno è speciale, e, magari, tra le parole si farà largo un tesoro prezioso in cui ritroverete qualcosa di vostro, che vi farà venire voglia di prendere carta e penna e iniziare, anche voi, la vostra lista.
"C'è una leggerezza, una grazia tutta speciale, nel semplice fatto di esistere"- dice la Héritier- ed io aggiungo che tutto il bello viene ancora dopo, e ce n'è tanto. Basta saperlo cogliere, anche nelle sottigliezze che ci alleggeriscono il cuore, anche nelle tristezze più grandi che ce lo appesantiscono.
Un giorno un amico speciale mi ha lasciato un commento, in fondo ad uno dei nostri romanzi preferiti, il manifesto della beat generation On the road (oh, la magia dei libri, che passano di mano in mano, e legano le persone). Oggi lo voglio citare, in questo piccolo inno alla vita.
Prendere in mano la vita e guardarla, tirarne fuori tutto il bello e il brutto, che poi è sempre bello. -G

E io comincio da questo: avere incontrato te. Cantare, ballare, prendere il sole sul viso quando l'estate si inizia a scorgere, o quando invece sta per andarsene ma ne resta ancora un po', fare le capriole in acqua, nuotare, immergersi, i tuffi, le urla liberatorie in motorino attraversando le gallerie "tanto non mi sente nessuno", parlare da sola " tanto non mi sente nessuno(spero)", gli abbracci che vorresti prolungare all'infinito, i baci, in bocca, sul collo, sulle mani, sulla fronte, sugli occhi, quelli dati e quelli ricevuti, le carezze, stupirsi per un momento mentre lo si sta vivendo, sentirsi fortunata, scriversi "libera" sul polso, guardarsi allo specchio e sentirsi bella(almeno per un po'), legarsi i capelli, slegarseli, toccarli, annusarli, uno sguardo, un sorriso, il mare, il tramonto, il terrazzo di casa mia, le passeggiate-mare, le panchine, viaggiare, prendere aerei, scendere dagli aerei e sentire un'aria nuova, ridere senza riuscire a contenersi, fare muffins. [...]

L.

venerdì 22 novembre 2013

Apnea

Oh, piccolo principe, ho capito a poco a poco la tua piccola vita malinconica.
Per molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei tramonti.
Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, al mattino, quando mi hai detto:
"Mi piacciono tanto i tramonti. Andiamo a vedere un tramonto..."
"Ma bisogna aspettare..."
"Aspettare che?"
"Che il sole tramonti..."
Da prima hai avuto un'aria molto sorpresa, e poi hai riso di te stesso e mi hai detto:
"Mi credo sempre a casa mia!..."
Infatti. Quando negli Stati Uniti è mezzogiorno tutto il mondo sa che il sole tramonta sulla Francia.
Basterebbe poter andare in Francia in un minuto per assistere al tramonto. Sfortunatamente la Francia è troppo lontana. Ma sul tuo piccolo pianeta ti bastava spostare la tua sedia di qualche passo. E guardavi il crepuscolo tutte le volte che volevi...
"Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatré volte!"
E più tardi hai soggiunto:
"Sai... quando si è molto tristi si amano i tramonti..."
"Il giorno delle quarantatré volte eri tanto triste?"
Ma il piccolo principe non rispose.

(Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry)

Ogni volta che le liti e le incomprensioni mi toglievano il respiro, ad ogni distanza ed ogni silenzio che mi annodavano lo stomaco, per ogni dolore che è nato, ancorandosi dentro di me, la mia via di fuga è stata smettere.
Avevo imparato a scollegarmi, per un po'. Lo facevo ricercando qualcosa di profondamente intimo, a cui, quasi per una sorta di amore ancestrale, ero sensibile; cose semplici, che potevo prendere allungando la mano, cose belle. Allora capitava che scegliessi di andare a correre, o, se più della rabbia in me prevalevano tristezza e confusione, semplicemente camminavo. Decidevo in base al ritmo dei pensieri e a ciò da cui mi stavo allontanando. Il paesaggio, quello in cui ero cresciuta e che mi apparteneva, certe volte il freddo, che mi gelava il viso anestetizzando il dolore, forse anche l'endorfina, mi facevano stare meglio.
Se mi sentivo vuota, svuotavo anche tutto il resto. Buio su buio, tutto quello che riuscivo ad ottenere chiudendo la porta, spegnendo la luce, sotterrandomi sotto le coperte; mi appiattivo all'oscurità  della stanza, come se potessi azzerare quella che invece avevo dentro. Poi, però, uscivo sul terrazzo, mi sedevo sul pavimento, in quell'angolo di casa che mi appartiene più di tutti gli altri; non smettevo di pensare, non smettevo di provare emozioni. Cercavo ciò che mi portasse in un posto altro e che fermasse il tempo, addentrandomi in realtà sempre più tra i miei martellanti pensieri: scappiamo per
trovare noi stessi, dicono. Nel mio caso patologico, però, probabilmente è meglio quando non mi trovo. Il fatto è che mi fisso sulle cose, mi tormento fino allo sfinimento; giuro, a volte mi sto antipatica da sola. Ludovica, dovresti spegnere quel cervello, smetterla di pensare, smetterla e basta, ma è caratteriale: sono fatta così(male). C'è anche qualcos'altro, ancora più irritante. Il pianto, lento, soffocato, poi, nella peggiore delle sue evoluzioni, isterico; peggio di una bimba, come una femminuccia. Ho pianto fino allo svenimento, fino all'esaurimento, fino ad addormentarmi. Le mattine dopo mi svegliavo senza occhi, così gonfi che non li vedevo più; lo ho odiato con tutto il
cuore. Credo di aver tentato ogni modo per evitarlo, guardando in alto, ricacciando dentro le lacrime, tenendole dentro con tutta la rabbia e la forza che avevo; eppure mi scioglievo, sentivo che una parte di me se ne stava fisicamente andando. Non sono mai riuscita a combatterlo, era fisiologico.
"Odio quando piangi, lo sai, non lo sopporto."
"Non sto piangendo. È solo uno sfogo. Lo odio anche io."
Adesso ho smesso per davvero, ho smesso ogni cosa. Ricordo nei dettagli l'ultima volta in cui ho provato a far tacere pensieri e umori. Quel giorno strano era stato pieno, ma frettoloso, un susseguirsi veloce di cose dense, improvvisate eppure capaci di risultare impreviste. Era stato colmo della nostra
perfetta diversità, della sincerità con cui sapevamo ridere, del modo unico in cui ci amavamo; ma era
l'ultima volta che ridevamo insieme, l'ultimo amore. Ricordo tutto, eccetto il momento esatto in cui mi sono spenta. Non so se è successo quando è arrivato il silenzio, quando si è seduto davanti a me, quando mi ha guardata e poi ha preso coraggio, o quando ho sentito la porta chiudersi. Probabilmente il tempo si è fermato in quell'ultimo momento, o almeno è quello che ho pensato. Così ho sceso le scale, e ho fatto quello che facevo sempre, ho deciso di non guardare. Se solitamente aprivo il getto della doccia per lavare via le lacrime e il male, in quel giorno d'estate sono andata al mare, e poi mi sono buttata sott'acqua. Non sono più uscita da quell'apnea. Il tempo si è fermato, poi ha ripreso, lentamente, ad andare avanti, ma è diventato relativo. Il mio è un dolore strano, timido. Non so esattamente da cosa, ma si sta nascondendo; forse da me, perché, se lo vedessi, capirei che è finita davvero. Passano i giorni, passano su di me, e io non me ne accorgo. Non sento più. Ogni tanto ritorno da quell'apnea, ma non mi sento realmente qua.

Torneremo a scorrere.
L.

giovedì 21 novembre 2013

Ciao, mi chiamo Ludovica


Mi chiamo Ludovica. Mi piace proprio il mio nome.
Amo la bellezza, e con essa l'arte. L'universale nel particolare. Per me bello è ciò che è adeguato. Le cose speciali infatti, tutte quelle che brillano di luce propria, hanno come qualità fondante l'adeguatezza. E la perfezione è forse questo, quando dici "è proprio come deve essere".
Sono ipersensibile e un po' lo detesto. Mi emoziono, di fronte all'adeguatezza ma non solo. Mi vengono i brividi, le palpitazioni, e spesso vado in iperventilazione: il mio corpo, stupidamente, reagisce a tutto quello che gli dicono le mie emozioni. Questo è un problema, perché costituisce un continuo attentato al mio tentativo di stabilità. Se posso, evito ogni forma di squilibrio e, la cosa fantastica, è che il mio sforzo in tal senso è inversamente proporzionale alla mia riuscita. La cosa ancora più fantastica è che ho recentemente capito che è il mio essere incoerente a rendermi compiuta.
Ok, una cosa si sarà capita di me: divago. Troppo, lo so.
Cerco di farla un pochino più breve, se ci riesco. Scrivo da sempre, cose stupide e cose che, per me, sono importanti. Scrivo ovunque, con qualsiasi cosa io abbia a disposizione, per non perdere le idee; lo faccio da sempre, perché non solo è uno sfogo, ma è un modo per buttare fuori quello che ho dentro, visualizzarlo sulla carta, ordinarlo. Ora, semplicemente, sto provando a condividere tutto questo.

L.




mercoledì 20 novembre 2013

Persone che non sanno cosa vogliono

C'è una categoria di persone che io non sopporto, a cui non credo: quelli che non sanno cosa vogliono. Ci sono così tante cose che non possiamo scegliere, accadono e basta; abbiamo il dannato dovere ed il diritto di decidere ciò che dipende da noi soli. Non sapere ciò che si vuole non è che superficialità ostentata, una mancanza di interesse verso se stessi, e soprattutto è una grandissima scusa, la più grande delle palle. Lo so, sono particolarmente cattiva con questo sottogenere di smidollati-fanno infatti parte della grande ed allegra famiglia responsabilitàquestasconosciuta, sezione "senza macchia e senza paura". Sì, queste cose mi fanno arrabbiare(e io non mi arrabbio mai). L'aggravante risiede proprio nel fatto che obiettivi e aspirazioni fanno parte del tessuto stesso di cui è fatto l'uomo; non è richiesta alcuna particolare dote intellettiva per sentire ciò che si ha dentro, basta fare un po' di attenzione, nei casi più complessi. Non parlo di dover scegliere davanti ad una vetrina di scarpe, tra gli scaffali  di una libreria o tra i gusti del gelato; quelle sono indecisioni produttive, con cui possiamo scoprire le piccole, grandi cose belle che sono a nostra disposizione e provarne il più possibile, nelle diverse sfumature. In quei casi cambiare idea è un modo per tenere aperti mente ed occhi, per non precludersi a nulla ed ampliare cuore, orizzonti, conoscenza-e armadio.
Forse sono di parte, poco obiettiva. La mia scarsa capacità di decentramento mi porta a non considerare le diversità delle persone, ma a me sembra così dannatamente semplice, che non posso farne a meno. Ho voglia, voglia, voglia, e voglia. La sensazione più bella al mondo, quella che ci mantiene vivi. E poi scegliere è un po' come comunicare, non si può non farlo; la non scelta è, di per sé, pur sempre una scelta.
Voglio fare un appello: non restate immobili, prendete coraggio, e guardatevi dentro; i vostri desideri non potranno essere tanto spaventosi, vi appartengono. E poi, dopo che li avrete visti e riconosciuti, non abbiate paura di sceglierli, perché la paura vi farà morire.
Le persone che non sanno cosa vogliono adorano questa loro definizione, ci si nascondono, è il loro caldo e comodo rifugio. Per questi casi umani è troppo tardi; la paura li ha uccisi, tutti, ormai da tempo. Alcuni si sono a tal punto calati nel ruolo da considerarsi realmente dei predestinati a cui è stata negata la possibilità di avere una visione minimamente chiara d'insieme, "perché sì", dicono, per volontà di un'entità superiore. Ecco, se volete, ve li creo io problemi di forza maggiore(il mio lato violento,addirittura). Attenzione: è possibile siano, nonostante tutto, i più preparati quando si tratta di scegliere quale film guardare, che sappiano perfettamente dire che musica ascoltano, che cucina preferiscono, molto spesso sapranno anche dare una loro descrizione precisa, sicura. Questo non va contro la mia tesi, la avvalora, sottolineando quanto profonde siano le loro false incertezze. Le "crisi di intentità" non sono a flusso continuo, arrivano nei momenti giusti, quando ne hanno bisogno, quando si tratta di fare scelte che hanno delle implicazioni. Ad una seconda analisi è evidente che il loro problema riguardi la responsabilità, ma vorrei essere più concreta.
Per esemplificare, svelerò una delle frasi a loro più care, che solo i cervelli più fini avrebbero potuto partorire. È un must, prendete nota.
"Lasciarti non è stata una volontà, ma un dovere". Nella mia personale classifica se la batte solo con "Tu sei perfetta, il problema sono solo io" (abbiate la prontezza di rispondere "lo so che il problema sei tu, brutto cretino").
Adesso io mi chiedo come sia possibile che i desideri di questi individui siano a tal punto inconsistenti da svanire dopo qualche giorno. Desideri sbagliati! Non si vuole una persona a giorni alterni, si vuole e basta.
E tu non mi vuoi.
L.

Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale


martedì 19 novembre 2013

L come Looser


Ciao, mi chiamo Ludovica, e ho un problema congenito: sono SFIGATA.
Ormai non mi stupisco più di nulla, ma il segreto è non dare mai le mie sfortune per scontate: quello è il momento in cui ne capitano di peggiori. Per affrontare l'intensiva ondata catastrofica di questa settimana con classe, non le ho dato importanza; d'altronde sono un'ottimista convinta, e "va bene lo stesso" sempre, con nonchalance. Avrei dovuto leggere i segnali sin dall'inizio, intuire che il mio weekend allungato sarebbe stato disastroso, fermarmi, chiudermi in casa, limitare i danni. Quando mai. L'incipit è il mio preferito, ha del tragicomico, mi fa quasi ridere. Mercoledì mattina: attingendo ai resti delle mie risorse vitali, tento di uscire dal letto con movimento rotatorio, avvolgendomi tra le coperte e rotolando per terra. Nonostante il risveglio non sia dei più brillanti, mi sento quasi soddisfatta-probabilmente una sensazione momentanea, ma non succedeva da tanto-e poi il rincoglionimento mattutino anestetizza qualsiasi dolore, peccato non duri abbastanza. Dopo essermi trascinata in cucina, suppongo di aver messo sù il caffè, troppo presto per i miei standard di ripresa, così che la metà cade disastrosamente sul tavolo; ma questa è la prassi. Ah, il cellulare; tanto non mi scrive nessuno. (Appuntare: il momento in cui le cose succedono, è quando meno te lo aspetti, e soprattutto è il meno opportuno). Leggo il suo nome, prima reazione tachicardica. Leggo il testo, "notte", forse rido, poi sento salire la rabbia, insieme al caffè. Se non me lo aspettavo, è colpa mia; ormai dovrei sapere come funziona, dovrei trovarlo scritto tra qualche post-it attaccato in camera. Violare la colazione, che è il mio pasto preferito, è molto scorretto, ma davanti a me si apre una prospettiva diversa, che non avevo mai preso seriamente in considerazione: non rispondere, e dare un senso diverso alla giornata. Dopodiché il mio cellulare è morto. Io ho una tesi: si è rifiutato, ribellandosi a quel messaggio privo di senso. Bisogna essere particolarmente vocati per riuscire a scrivere senza dire nulla, e quella parola buttata a caso, quelle due sillabe, quelle cinque stupide lettere, non sono assolutamente niente. Non è neppure "buonanotte", troppo faticoso, meglio risparmiare e mantenere un tono neutro e distaccato; d'altronde aggiungere "buona" sarebbe stata una presa di posizione troppo piena di implicazioni, me ne rendo conto. Anche il cellulare mi aveva lasciato: utile, ma forse non troppo comodo. Il giorno dopo tornavo a casa: pazza, mai ignorare i presagi e mettersi in viaggio. Uscita da lezione ho capito di essere in ritardo, e con borsa, tracolla e valigia, che inspiegabilmente ogni volta riesce ad essere sempre più pesante, ho iniziato a correre. Arrivata in stazione, nell'ultimo minuto utile ho fatto il biglietto alla velocità della luce, raggiungendo il binario un po' come una pazza, ma in tempo. La quiete dopo la tempesta. La mattina dopo mi sono accorta che il mio portafoglio si era dissolto nel nulla(magari proprio quello di Prada che da appena un mese ero riuscita ad ottenere in prestito perché "ora sono grande mamma, sarò stra-attentissima"), non ci volevo credere. Pur nella certezza che non lo avrei ritrovato, nella più totale disillusione, ho aspettato, sicura che se avessi fatto la denuncia, i documenti sarebbero riapparsi nel minuto immediatamente successivo. Ergo ero senza patente. Specifico: non solo abito in una micro realtà isolata tra due gallerie, in cui la vita è scandita dagli orari dei semafori verdi che scattano ogni venti minuti; abito in una frazione di quella micro realtà, in cui senza una macchina la reclusione è l'unica alternativa. Ma anche questo ostacolo è stato momentaneamente superato, per andare dal dentista. Solo buone notizie, era la regola; quindi mi hanno devitalizzato un dente. Lo hanno ucciso, torturandolo: odio i dentisti. Sfiga numero tre: domenica, per concludere degnamente la mia permanenza a casa, ho avuto la brillante idea di aggirare la sorte, e sono salita in macchina. Non è vero, non è stata brillante, è stata stupida, stupida e stupida. Ho fatto una manovra, ho rovinato la macchina. Avrei voluto piangere, ma semplicemente ero sfinita, e me lo meritavo. In tutto ciò, il mio cervello malato ha anche avuto il tempo per domandarsi se avessi ricevuto altri messaggi, e il mio cuore il tempo per incupirisi.
Adesso è lunedì, una nuova settimana. Ah, sto scrivendo seduta sulle comode scale del mio appartamento, in attesa davanti al portone. Peccato, ho dimenticato le chiavi e non ho ancora un cellulare funzionante. Ok, magari la nuova settimana inizia da domani.
I particolari più drammatici sono stati censurati per non urtare la sensibilità dei lettori.
Tratto da una storia vera.

L. (sta per "Looser")


martedì 12 novembre 2013

Sciarpe eloquenti


La moda passa, lo stile resta. 
Frase che entra di diritto nella classifica delle dieci peggio utilizzate: strattonata, maltrattata e resa, un po' tristemente, iconicamente vuota. Riconsegnata a Coco Chanel, ha un altro fascino.
Il fatto è che ormai essere alla moda non va più di moda. Tutti ricercano ansiosamente l'anticonvenzionale nel tentativo di emergere per contrasto, dimenticando che la risultante di un calcolo troppo preciso e studiato non è che un insieme rigido, freddo, sconnesso e disomogeneo. Chiedo ufficialmente scusa per la piagnucolosa introduzione in cui mi lamento di quanto sia brutta e cattiva l'omologazione delle masse e inneggio alla "express yourself"; ahimè, mi sono lasciata tentare.
Le mode, poi, passeranno anche, ma ritornano sempre. I colori si rimescolano, modelli di generazioni passate riemergono dal fondo degli armadi, stampe e tessuti aspettano pazientemente il loro turno per riproporsi nuovamente; le regole in fondo sono date per restituire un senso alla trasgressione. Io trovo che sia una forma di ricchezza: la moda in quanto arte non dovrebbe morire mai, semplicemente rigenerarsi, come forma vuota che la storia riempie di volta in volta di sensi diversi.
Anche se mi sarebbe piaciuto (giusto un pochino), non è stato necessario presenziare a New York o a Paris per intuire che una delle corsie preferenziali di questa stagione autunno inverno spetta al tartan(sì, i quadratoni dei kilts). Dire tartan fa molto figo, è innegabile, ma questo non toglie che strade e vetrine ne siano stracolme: la stampa scozzese ha raggiunto e conquistato ogni possibile meta, dai maglioncioni che sembrano subito più caldi, alle mantelline per cani che fanno tendenza.
Ai limiti del commovente, vorrei testimoniare l'irresistibile ascesa delle mie ciabatte chuck, che, tra i tanti, ringraziano calorosamente Moschino come Saint Laurent per aver onorato i loro caratteristici quadrati rossi e neri. La parabola che le vede protagoniste raggiunge la massima intensità proprio tra la giravolta di una modella imbronciata e il colpo d'anca della russa alta un metro-e-me, attimo in cui, dalla passerella ai miei piedi, le loro quotazioni si gonfiano fino quasi ad esplodere. Una storia che inizia molto prima: rigorosamente conquistate con i punti del supermercato, si contraddistinguono sin da subito per capacità di adattamento; da fermaporta a giocattolo del cane, il riscatto è stato considerevole. Eppure, tra me e il tartan, per un motivo inconscio, forse illogico e addirittura arcaico, c'è empatia. L'ho capito quando una sciarpa mi ha parlato. Ve lo giuro, i vestiti parlano se li ascoltate, sanno essere molto eloquenti. Inutile dire quanto sia morbida, calda e avvolgente; perfetta per affrontare il gelo imminente così come le intense giornate letto-divano-letto. È una cosa seria, la mia sciarpa è multitasking: tanto ampia da poter diventare una gonna a portafoglio, un caldo vestito che potrete indossare il giorno di Natale per stupire la famiglia, un insolito turbante che vi farà invidiare dal più spietato collezionista di copricapi, oppure un confortevole plaid, ovviamente condivisibile in due. Eppure è stata la stoffa, lavorata a più fili nel caratteristico intreccio, a legarmi a lei. Ho saputo subito che sarebbe stata mia, nel momento in cui per la prima volta ci siamo guardate. Il mio amore per i francesismi mi porta a dire che è stato quel je ne sais quoi intrinseco nel motivo scozzese della sciarpa, ma in un secondo momento ho esattamente capito il perché di quel legame. Avete mai provato a pensare intensamente al primo ricordo che avete? Quello è il momento in cui è nata la vostra autocoscienza, la consapevolezza del sè. Secondo la psicologia ormai è certo che lo scatto interiore avvenga intorno ai due anni, ma, a livello pratico, risalire la memoria fino al principio di essa non è un esercizio altrettanto ovvio. Ho quasi finito di divagare, promesso. Il punto è che, se  chiudo gli occhi e mi concentro, riesco chiaramente a riconoscere le mani della mia mamma che cercano di far passare dentro un vestitino scozzese le braccia di una bambina un po' impacciata. E poi una catena di immagini, sempre nella stessa fantasia: fermagli, camicette, gonne. Tutto si intonava così bene ai colori che mia madre preferiva, blu notte, bordeaux, caramello, e alla carta da parati della casa del nonno dove da piccola trascorrevo il Natale, in Borgogna. L'insieme era perfetto, bon ton e un po' da principessa, esattamente come volevo essere, ed esattamente in contrasto con l'altro lato che allo stesso modo amavo: felpe ampie, tennis ai piedi, e capelli raccolti con grandi elastici; la divisa ufficiale con cui giocavo in campagna, collezionando le innumerevoli ferite di guerra senza il rischio di bucare i collant. 
Ah, e poi la fantasia della mia sciarpa è esattamente identica a quella della sua camicia, che gli sta così bene. Non è banale; i vestiti ci appartengono, dicono qualcosa di ciò che siamo se ci lasciamo raccontare e se li sappiamo interpretare, possono avvicinarci alle persone, anche quando sono distanti, anche quando se ne vanno. 
Cosa resta poi? Le mode sono ciò che ci piace, ciò che vogliamo, ciò che scegliamo. 
L.




Photo by Camilla Garibaldi






martedì 5 novembre 2013

Cara Molly


Forse oggi è avvenuto uno scatto dentro di me. Mille idee si sono così spesso agitate nella mia testa, 

in un modo disordinato che un po' mi faceva star male a causa della mia incapacità di compiutezza. Ho sempre pensato di essere troppo pigra, una che inizia le cose e le lascia ancora prima di arrivare a metà. La noia, la paura; sentimenti che mi chiudono la gola. Mi dicevo di non essere pronta: "non hai niente da dire, non ancora abbastanza; devi vivere un po' di più". E invece forse sono pronta. Credo di voler dare una forma a quello che ho dentro; sono così tante le possibilità di espressione di noi stessi, infinitesimali, che forse mi conviene iniziare.
Quindi ti sto dicendo tutto ciò per ringraziarti, forse per pura gioia e istinto di condivisione, e forse anche un po' perchè è giusto così data la consapevolezza che gran parte di ciò che ho, e che sono, lo devo agli incontri che ho fatto, alle cose che ho visto, sentito, indossato, mangiato, scoperto per caso o cercato, insomma, alla nostra stupenda capacità di percepire, penetrare e poi far nostra la meraviglia che incontriamo.
Ludovica M.


Questo è parte di ciò che, appena ieri, mi sono precipitata a scrivere ad una ragazza scoperta per caso: si chiama Camilla. Ho voluto farlo in fretta, per non perdere l'immediatezza del vortice emozionale che mi ha investito leggendo le sue parole. È spiazzante come, con quanta precisione, le casualità ci conducano a scoprire parti di noi stesse, e le facciano vibrare come corde tese, con quel po' di velata violenza che talvolta serve a dare il sale alla vita. Questo è il motivo per cui sto scrivendo; questa, in parte, sono io. Credo nelle sfumature e nella grandezza delle piccole cose, nelle vibrazioni che ci avvolgono e che, in fondo, rendono grande l'umanità, unendo le persone le une alle altre tramite legami tanto fragili e squilibrati quanto potenzialmente indissolubili.
Alcuni sostengono che il caso non esista. Forse è vero, forse è un concetto svuotato dalle opinioni comuni che ci vogliono più distratti e passivi, che troppo spesso sovrasta e si contrappone alla potenzialità delle nostre intuizioni e volontà. Bisognerebbe avere un'idea meno riduttiva del caso, e dare più peso alle possibilità di scelta ed azione. Se ieri è stato un caso, oggi sto scegliendo la mia mossa. Questi sono gli anni preziosi che viviamo, mentre le nostre facoltà sono in tensione e assorbiamo tutto, anche ciò di cui non ci accorgiamo: voglio dargli una voce.
Ok, pronti e via. Lo sto facendo.  

Camilla,
Tu non sai chi sono, io non so chi sei, eppure ho sentito il bisogno di scriverti.  


È iniziato così; ora devo solo prendere coraggio ed andare avanti. Excelsior!

L.