venerdì 22 novembre 2013

Apnea

Oh, piccolo principe, ho capito a poco a poco la tua piccola vita malinconica.
Per molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei tramonti.
Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, al mattino, quando mi hai detto:
"Mi piacciono tanto i tramonti. Andiamo a vedere un tramonto..."
"Ma bisogna aspettare..."
"Aspettare che?"
"Che il sole tramonti..."
Da prima hai avuto un'aria molto sorpresa, e poi hai riso di te stesso e mi hai detto:
"Mi credo sempre a casa mia!..."
Infatti. Quando negli Stati Uniti è mezzogiorno tutto il mondo sa che il sole tramonta sulla Francia.
Basterebbe poter andare in Francia in un minuto per assistere al tramonto. Sfortunatamente la Francia è troppo lontana. Ma sul tuo piccolo pianeta ti bastava spostare la tua sedia di qualche passo. E guardavi il crepuscolo tutte le volte che volevi...
"Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatré volte!"
E più tardi hai soggiunto:
"Sai... quando si è molto tristi si amano i tramonti..."
"Il giorno delle quarantatré volte eri tanto triste?"
Ma il piccolo principe non rispose.

(Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry)

Ogni volta che le liti e le incomprensioni mi toglievano il respiro, ad ogni distanza ed ogni silenzio che mi annodavano lo stomaco, per ogni dolore che è nato, ancorandosi dentro di me, la mia via di fuga è stata smettere.
Avevo imparato a scollegarmi, per un po'. Lo facevo ricercando qualcosa di profondamente intimo, a cui, quasi per una sorta di amore ancestrale, ero sensibile; cose semplici, che potevo prendere allungando la mano, cose belle. Allora capitava che scegliessi di andare a correre, o, se più della rabbia in me prevalevano tristezza e confusione, semplicemente camminavo. Decidevo in base al ritmo dei pensieri e a ciò da cui mi stavo allontanando. Il paesaggio, quello in cui ero cresciuta e che mi apparteneva, certe volte il freddo, che mi gelava il viso anestetizzando il dolore, forse anche l'endorfina, mi facevano stare meglio.
Se mi sentivo vuota, svuotavo anche tutto il resto. Buio su buio, tutto quello che riuscivo ad ottenere chiudendo la porta, spegnendo la luce, sotterrandomi sotto le coperte; mi appiattivo all'oscurità  della stanza, come se potessi azzerare quella che invece avevo dentro. Poi, però, uscivo sul terrazzo, mi sedevo sul pavimento, in quell'angolo di casa che mi appartiene più di tutti gli altri; non smettevo di pensare, non smettevo di provare emozioni. Cercavo ciò che mi portasse in un posto altro e che fermasse il tempo, addentrandomi in realtà sempre più tra i miei martellanti pensieri: scappiamo per
trovare noi stessi, dicono. Nel mio caso patologico, però, probabilmente è meglio quando non mi trovo. Il fatto è che mi fisso sulle cose, mi tormento fino allo sfinimento; giuro, a volte mi sto antipatica da sola. Ludovica, dovresti spegnere quel cervello, smetterla di pensare, smetterla e basta, ma è caratteriale: sono fatta così(male). C'è anche qualcos'altro, ancora più irritante. Il pianto, lento, soffocato, poi, nella peggiore delle sue evoluzioni, isterico; peggio di una bimba, come una femminuccia. Ho pianto fino allo svenimento, fino all'esaurimento, fino ad addormentarmi. Le mattine dopo mi svegliavo senza occhi, così gonfi che non li vedevo più; lo ho odiato con tutto il
cuore. Credo di aver tentato ogni modo per evitarlo, guardando in alto, ricacciando dentro le lacrime, tenendole dentro con tutta la rabbia e la forza che avevo; eppure mi scioglievo, sentivo che una parte di me se ne stava fisicamente andando. Non sono mai riuscita a combatterlo, era fisiologico.
"Odio quando piangi, lo sai, non lo sopporto."
"Non sto piangendo. È solo uno sfogo. Lo odio anche io."
Adesso ho smesso per davvero, ho smesso ogni cosa. Ricordo nei dettagli l'ultima volta in cui ho provato a far tacere pensieri e umori. Quel giorno strano era stato pieno, ma frettoloso, un susseguirsi veloce di cose dense, improvvisate eppure capaci di risultare impreviste. Era stato colmo della nostra
perfetta diversità, della sincerità con cui sapevamo ridere, del modo unico in cui ci amavamo; ma era
l'ultima volta che ridevamo insieme, l'ultimo amore. Ricordo tutto, eccetto il momento esatto in cui mi sono spenta. Non so se è successo quando è arrivato il silenzio, quando si è seduto davanti a me, quando mi ha guardata e poi ha preso coraggio, o quando ho sentito la porta chiudersi. Probabilmente il tempo si è fermato in quell'ultimo momento, o almeno è quello che ho pensato. Così ho sceso le scale, e ho fatto quello che facevo sempre, ho deciso di non guardare. Se solitamente aprivo il getto della doccia per lavare via le lacrime e il male, in quel giorno d'estate sono andata al mare, e poi mi sono buttata sott'acqua. Non sono più uscita da quell'apnea. Il tempo si è fermato, poi ha ripreso, lentamente, ad andare avanti, ma è diventato relativo. Il mio è un dolore strano, timido. Non so esattamente da cosa, ma si sta nascondendo; forse da me, perché, se lo vedessi, capirei che è finita davvero. Passano i giorni, passano su di me, e io non me ne accorgo. Non sento più. Ogni tanto ritorno da quell'apnea, ma non mi sento realmente qua.

Torneremo a scorrere.
L.

3 commenti:

  1. Anch'io ho trattenuto il respiro leggendo questo tuo post. Non hai idea di quanto mi ha presa e di quanto io mi ci sia ritrovata.. Te,a. Differenza mia, sei riuscita a trovare le parole che io non trovavo, o che erano nascoste. Adoro quello che scrivi.

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